giovedì 17 novembre 2011

PONTYPOOL (Bruce McDonald, 2009)

















Nonostante il sottotitolo da western-spaghetti – Sta zitto o muori! ­­­–, Pontypool,passato direttamente dalla programmazione Fuori Concorso del 28° Torino Film Festival agli scaffali impolverati delle ormai sempre più sparute videoteche del nostro paese, è tutt’altro che un horror di serie b, ma è invece uno dei film più interessanti che di recente abbiano toccato il tema del contagio e dell’assedio, con buona pace di Soderbergh e del suo Contagion.

I pregevolissimi titoli di testa ci portano in un Canada gelido e tempestoso, dove un consumato deejay locale con l’aspetto el’atteggiamento da cowboy dei giorni nostri di appresta a cominciare una nuovagiornata di lavoro nello scantinato che ospita la sua stazione radio. In cerca
di qualche scoop da dare in pasto agli assopiti ascoltatori della sua radio di
provincia Grant, questo è il nome del protagonista, si collega con un “inviato speciale” che gli riporta gli avvenimenti del giorno, ma è evidente fin da subito che non si tratterà di una
giornata come le altre.

Occorre svelare il meno possibile di Pontypoool, il cui punto di forza principale è proprio l’ottima gestione dei tempi narrativi in rapporto al graduale disvelamento degli eventi che terranno inchiodati lo spettatore alla sua poltrona e i protagonisti ai loro microfoni, collegati solo
con essi al mondo esterno e costretti ad assistere impotenti al precipitare della situazione al chiuso del loro bunker.

Questo Kammerspiel a basso budget con un occhio – ma sarebbe meglio dire un’orecchio – a Orson Welles e un altro alla tensione e alle tematiche del cinema di John Carpenter, assicura un’ora e mezza di suspance cristallina e di destrezza attoriale: L’ottimo Stephen McHattie, prestato dal teatro, si trova a suo agio in un set circoscritto e claustrofobico. Nel film, girato con un budget contenuto, l’elemento scatenante la paura infatti non deriva dal visibile ma da un traballante collegamento in radiofrequenza che trasmette il senso di assedio e minaccia di un ignoto nemico esterno, lasciando che sia l’immaginazione dello spettatore a costruirne un’immagine. Ed è così che, infatti, la tensione scema mano a mano che il film si avvicina alla sua più naturale conclusione e scopre le sue carte, proprio quando il media radiofonico cede il posto a quello più classicamente cinematografico. Si potrebbe perciò, neanche troppo banalmente, che Pontypool sia un film sulla parola e sul linguaggio, piuttosto che sulla visione, sul medium radio, piuttosto che sul cinema. Il film di McDonald non inoltre manca di gettare i semi per succosi spunti di riflessione: le tematiche cronemberghiane e Carpenteriane rielaborate con le teorie semiotiche sul codice linguistico, il potere della parola, l’idea del linguaggio come virus
contagioso.

Nonostante un finale non all’altezza delle premesse, un film con poche buone idee ben piazzate.

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