lunedì 16 marzo 2009

GRAN TORINO






Clint Eastwood, Usa, 2008, Con Clint Eastwood, Christopher Carley, Geraldine Huges



Walt Kowalsky - ma vuole essere chiamato "signor Kowalsky"-, , americano di origine polacca, è un vecchio lupo solitario rimasto con la testa ai suoi anni '50, scontroso, razzista e scorbutico, pronto a sventolare il suo fucile in faccia a chiunque vìoli la sua proprietà. Morta la moglie, non potendo contare su una famiglia che lo odia, si avvicina gradualmente ad un ragazzino coreano a cui ha involontariamente salvato la vita.

Dopo il dittico bellico su Iwo Jima e dopo aver firmato con Changeling una storia un cui lo Stato si intromette nella vita di una donna, un iperattivo Clint Eastwood ritorna alla dimensione intima della sua ultima apparizione davanti alla macchina da presa, di quel Million dollar baby che sembra vare qualche similitudine con questo ultimo lavoro.

Kowalsky, come Frankie, è scettico e distante, non crede nei rapporti umani ma solo nei valori - il lavoro manuale, l'essere veri uomini e non femminucce, l'orgoglio per la propria patria - padre di un'America spaventata dal'immigrazione e rinchiusa nel proprio recinto con il timore di vedere una cultura e un mondo spazzato via da estranei. Eastwood mette le mani su uno script firmato da altri ( Nick Schenk), e da vita ad un personaggio profondamente suo, che è il parente stretto di tutti i pistoleri e gli ispettori, da Callaghan a Gli spietati. Ma questa volta lo stereotipo è creato per essere distrutto, e probabilmente chi si aspetta un ritorno dell'Eastwood dei vecchi tempi rimarrà deluso.

La struttura della storia ricorda quella di Million dollar baby perchè l'avvicinamento tra Kowalsky e il ragazzino coreano, da lui soprannomino " tardo" è il cardine di un plot che parla di rapporti umani - non senza qualche schematismo in realtà, ma che non nuoce al risultato finale - e del ruolo di una paternità vacante che è anche quella di una nazione. Gran Torino è un elogio alla diversità, proponendosi non solo come pellicola anti-razzista ma come apologia dell'unicità, dell'individualismo nel suo aspetto più positivo, tra i principi fondanti di quell'America le cui fondamenta sono proprio costruite sulla convivenza tra diverse etnie nel rispetto reciproco, italiani polacchi, irlandesi come coreani, tutti uniti, appunto, dalla loro diversità, in un momento in cui i valori più tradizionali, come famiglia e religione, sono profondamente in crisi. Un film pieno d'amore per una nazione - la bandiera americana sventola fiera sull'uscio della porta di Kowalsky - messa in difficoltà da chi ama diffondere odio e fomentare divisioni - le gang di bulletti che spargono il terrore in quartieri tristemente degradati -.

Gran Torino possiede inoltre un robusto umorismo con il quale il suo autore cerca di non prendersi troppo sul serio, senza mancare di prendersi in giro e di ridere del suo passato da "uomo dagli occhi di ghiaccio", con una serie di trovate comiche decisamente azzeccate - ci sono scene che sfiorano volutamente il trash -. Non ci si aspettino grandi finezze visive o metafore lampanti, o una sceneggiatura dai tempi quasi perfetti come Changeling, ma un film grezzo, , duro e puro, dal cuore tenero e morale ma senza moralismi, con una conclusione che rimette tutto in discussione celebrando un'espiazione - quella dell'America razzista e reazionaria di Vietnam e Corea - con la quale i padri mettono da parte la loro 44 magnum e cedono il passo ad un'America nuova, e forse migliore. Mai uscita di scena fu più felice.

Nessun commento: