mercoledì 7 dicembre 2011

ATTACK THE BLOCK di Joe Cornish [29° Torino Film Festival]

Durante uno scippo perpetrato ai danni di una giovane infermiera da parte di un gruppo di giovanissimi teppisti in un sobborgo degradato di Londra, una sorta di meteorite piomba improvviso dal cielo distruggendo un'auto. Il gruppo di squatter si da' alla caccia dell'ospite sgradito che ne viene fuori, eliminandolo con facilità: si tratta di un viscido mini-alieno quasi inoffensivo. Ma quello che i giovanissimi non sanno è che la creatura è solo un cucciolo. I grandi stanno arrivando e sono molto arrabbiati...

Trascorsi dieci anni dall’11 settembre, svanita la febbre da alieno-terrorista, metafora sulla quale hanno campato diversi film di fantascienza dell’ultimo decennio, la figura dell’invasore dallo spazio sta giacendo sotto un soffice strato di muffa, accingendosi ad esalare i suoi ultimi singulti con pacchiani crossovers o robaccia anacronistica come World Invasion. Per fortuna Attack the Block non è niente di tutto questo. Selezionato nella sezione Festa Mobile del 29° Torino Film Festival, è il riuscito prodotto di una scommessa: dare vita a un"invasion movie" a basso budget senza astronavi aliene, ne' epici scontri a fuoco tra esercito e marziani, ne' tantomeno grattacieli che crollano come tessere del domino. Solamente un gruppo di giovanissimi teppistelli di un quartiere popolare di Londra, armati di fuochi d'artificio, qualche coltellino e pistole ad acqua.
Gli alieni invasori, delle cui origini e motivazioni poco o nulla importa, sono disegnati in cg con un nero così intenso da confonderli con la notte e renderne visibili solo i denti verdi fosforescenti; una bella trovata per la quale il regista ringrazia il suo gatto nero. L'attacco, come da titolo, non è rivolto al pianeta terra ma coinvolge solo il Block, un quartiere degradato della periferia londinese che sembra tagliato fuori dal resto del mondo. La baby-gang di protagonisti sarà così in grado di riscattarsi: prima scippatori e reietti, poi nuovi eroi e difensori del quartiere nella lotta contro gli alieni. Il regista Joe Cornish, sceneggiatore del Tintin spielberghiano, con la produzione esecutiva dell'Edgar Wright di Shaun of the dead - al quale probabilmente dobbiamo la presenza nel cast di un Nick Frost come al solito fattissimo e impagabile - confezionano un divertissement intelligente ed avvincente con un occhio a Carpenter e Walter Hill per la poetica "di strada" e l’elogio dei bassifondi, non mancando di lanciare pungenti frecciate anti-borghesi e di citare i recenti Riots Londinesi, seppur forse non del tutto volontariamente. 


Lo stesso regista definisce il suo film ironicamente, Super 8 Mile;  forse un po’ ingenerosamente. Attack the block è per fortuna migliore di entrambi i modelli: facendo tesoro del basso budget - ma proficuamente capitalizzato fino all'ultimo centesimo – il film avvince e diverte con tutti gli stilemi del genere e dei generi di appartenenza –  il gang-movie, la commedia, l’horror, ..- inseriti in un contesto reale e quotidiano, in maniera analoga ad opere come l'interessante serial Misfits. Un esempio che in molti dovrebbe seguire.

 7 1/2

martedì 6 dicembre 2011

INSIDIOUS di JAMES WAN

Interessante nella confezione ma non irresistibile nella sostanza la nuova giostra horror di James Wan


La famiglia Lambert si è appena trasferita: con ancora tutti gli scatoloni da sistemare, il piccolo Dalton una mattina non si sveglia più. Tecnicamente sta benissimo, ma non risponde agli stimoli. Sua mamma, Renai, ci mette poco a capire che suo figlio non è un coma, ma quello che gli è successo ha a che fare con gli strani fenomeni che avvengono nella casa. Apparizioni improvvise, sensazione di essere spiata, oggetti che prendono vita. Ma non è la casa ad essere infestata…


James Wan è il regista che, al di la’ di ogni pur lecita valutazione personale, ha dato nuovo lustro al genere horror inventando un nuovo Boogeyman degli anni 2000. Quel Jigsaw che, nonostante la fine provvisoria della saga – ma mai dire mai -, è entrato definitivamente nell’immaginario collettivo accanto a Freddy Krueger e Jason Vorhees. Terminato il ciclo, il regista si da’ ad un filone che qualsiasi regista di horror degno di questa definizione deve prima a poi affrontare: la casa infestata. Ricalcando un percorso narrativo tutt’altro che originale, che fa convergere il filone della casa con quello della possessione demoniaca, Insidious chiarisce la propria natura fin dai suoi primi bellissimi trenta secondi: un piano sequenza che parte dal letto di un bambino, si sposta con un carrello a destra volteggiando nei corridoi, inquadra un’ombra e si ferma su un volto spettrale illuminato da una candela. Parte il titolo in sovraimpressione, realizzato con un carattere che omaggia i classici degli anni ’50, in sottofondo la tipica colonna sonora da ghost-story di quel periodo. Quello che il prologo preannuncia, e che il film effettivamente sarà, è una mera operazione di modernariato, una realizzazione ripulita e di alto livello tecnico di un cinema del passato. Se nella prima parte il film sembra procedere per la più prevedibile strada della ghost-story moderna – alla Le verità nascoste o Sesto Senso per intenderci -, non bisogna ingannarsi: da metà film in poi, Insidious palesa la sua vera natura, a metà tra l’omaggio – innumerevoli le citazioni, dalla cantina dell’Esorcista a Amitivylle -, passando per imprevedibili momenti di parodia scoperta – l'intervento iniziale dei due acchiapafantasmi, che d’altra parte non poteva che essere ironico -, fino alla sarabanda finale che è puro Poltergeist e derivati. Se nella prima parte il film riesce a causare qualche bello spavento grazie ad un ottimo utilizzo degli spazi – tra i produttori c’è l’Oren Peli di Paranormal Activity, nella seconda diventa un divertissement “colto” e cinefilo che gioca con i topoi del genere senza però incidere, proprio a causa del suo meccanismo troppo esibito.

Insidious è un’operazione interessante, che guarda ammiccante ai classici con una confezione di altissimo livello, una regia di ampio respiro e ottimi attori – lei è la bravissima Rose Byrne di Damages -. Ci sono momenti notevoli – la presa di coscienza del padre della natura della malattia del figlio – e un gran lavoro sul sonoro, sul quale lo studio dei classici è evidente. Ma non mancano neanche cadute nel trash – le “statue di cera” sono uno degli svariati scivoloni Kitch-. Tirando le somme resta poco da ricordare, e la consistenza del film, per la sua intrinseca natura, nonostante gli alti valori in gioco, pare più vicina a quella di un giro sulla Haunted Mansion di Disneyland che a quella di un horror davvero memorabile

6

lunedì 5 dicembre 2011

MONEYBALL - L'ARTE DI VINCERE di Bennett Miller (2011) [29° TORINO FILM FESTIVAL]


La Hollywood mainstream nel suo abito migliore: grande sceneggiatura e un ottimo Brad Pitt per un film sul baseball che non parla di baseball

Billi Jean è il manager degli Oakland Athletics, una squadra di baseball incapace di competere con i budget dei big della Major League del statunitense. Perse le sue stelle, Jean è costretto a reinventarsi e a cambiare strategia. E' Il giovane Peter Brand, laureato in economia a Yale con il massimo dei voti, a fornirgli l'idea rivoluzionaria: mettere in piedi una squadra non fondata sulle superstar dei baseball, ma su un collettivo scelto in base ad un'elaborata analisi statistico-matematica.

Scritto da Steve Zailian e Aaron Sorkin dopo una gestazione un po’ problematica e diretto dal premio Oscar Bennet Miller (Truman Capote), Moneyball è tratto dall’omonimo libro di Michael Lewis che racconta la stagione 2001 degli Oakland Athletics e del loro General Manager Billy Bean. Il film, presentato prima al festival di Toronto e poi al nostro Torino Film Festival in anteprima nazionale, prende vita dall’idea rivoluzionaria che un giovane genio dell’algebra neolaureato presenta al Manager Billy Bean: mettere insieme una squadra di Baseball rinunciano alle star e puntando tutto su un collettivo fatto di giocatori scartati perché “difettosi”, ottimizzando ognuno di essi per i suoi reali punti di forza sul campo.
Il film è tutto incentrato sul personaggio di Bean, del quale si alternano la scarna e triste vita privata e il lavoro da General Manager, che si compenetrano delineando il bel ritratto di una personalità controversa: tanto straripante, affetto da deliri di onnipotenza e privo di senso del limite sul lavoro quanto dolce e protettivo con l’adorata figlia dodicenne nel suo intimo. L’incontenibile Billy Bean è un vero distruttore, incompreso e al contempo temuto, per il suo coraggio di rompere le regole di un sistema ormai vecchio e consunto. Molto bravo Brad Pitt a interpretarlo, tanto da offuscare il pur bravo Johan Hill e un Philip Seymour Hoffman mai così sottostimato, almeno in rapporto al minutaggio concesso. Moneyball non è un film sul Baseball giocato, che non si vede mai sul campo se non negli innesti di filmati d’archivio, ma è il racconto di un’idea etica, se vogliamo politica, di management sportivo. Quella con la quale l’iconoclasta Billy Bean pensa di poter vincere la Major Leage infischiandosene delle capricciose star, e riservando loro il trattamento spesso meritato: concependo la squadra come collettivo vero, per la quale l’algebra e la statistica rappresentano solo lo spunto di partenza. L’idea che a comandare siano il gioco , le strategie e il collettivo, e non gli assegni a fondo illimitato di magnati milionari erogati a star svogliate e straviziare.
Moneyball si fa anche rappresentazione di impeccabili qualità tecnico artistiche: regia funzionale ed efficace al servizio di una sceneggiatura solidissima, impreziosite da un fotografia elegante ma sobria e da ottimi attori. Pur peccando di qualche minuto di troppo che appesantisce un ritmo altrimenti sempre elevato, Moneyball riesce ad avvincere con un tema non proprio immediato, - specialmente per chi di baseball ci capisce poco - e si fa rappresentazione della Hollywood mainstream nell’accezione migliore del termine.
7.5

giovedì 17 novembre 2011

PONTYPOOL (Bruce McDonald, 2009)

















Nonostante il sottotitolo da western-spaghetti – Sta zitto o muori! ­­­–, Pontypool,passato direttamente dalla programmazione Fuori Concorso del 28° Torino Film Festival agli scaffali impolverati delle ormai sempre più sparute videoteche del nostro paese, è tutt’altro che un horror di serie b, ma è invece uno dei film più interessanti che di recente abbiano toccato il tema del contagio e dell’assedio, con buona pace di Soderbergh e del suo Contagion.

I pregevolissimi titoli di testa ci portano in un Canada gelido e tempestoso, dove un consumato deejay locale con l’aspetto el’atteggiamento da cowboy dei giorni nostri di appresta a cominciare una nuovagiornata di lavoro nello scantinato che ospita la sua stazione radio. In cerca
di qualche scoop da dare in pasto agli assopiti ascoltatori della sua radio di
provincia Grant, questo è il nome del protagonista, si collega con un “inviato speciale” che gli riporta gli avvenimenti del giorno, ma è evidente fin da subito che non si tratterà di una
giornata come le altre.

Occorre svelare il meno possibile di Pontypoool, il cui punto di forza principale è proprio l’ottima gestione dei tempi narrativi in rapporto al graduale disvelamento degli eventi che terranno inchiodati lo spettatore alla sua poltrona e i protagonisti ai loro microfoni, collegati solo
con essi al mondo esterno e costretti ad assistere impotenti al precipitare della situazione al chiuso del loro bunker.

Questo Kammerspiel a basso budget con un occhio – ma sarebbe meglio dire un’orecchio – a Orson Welles e un altro alla tensione e alle tematiche del cinema di John Carpenter, assicura un’ora e mezza di suspance cristallina e di destrezza attoriale: L’ottimo Stephen McHattie, prestato dal teatro, si trova a suo agio in un set circoscritto e claustrofobico. Nel film, girato con un budget contenuto, l’elemento scatenante la paura infatti non deriva dal visibile ma da un traballante collegamento in radiofrequenza che trasmette il senso di assedio e minaccia di un ignoto nemico esterno, lasciando che sia l’immaginazione dello spettatore a costruirne un’immagine. Ed è così che, infatti, la tensione scema mano a mano che il film si avvicina alla sua più naturale conclusione e scopre le sue carte, proprio quando il media radiofonico cede il posto a quello più classicamente cinematografico. Si potrebbe perciò, neanche troppo banalmente, che Pontypool sia un film sulla parola e sul linguaggio, piuttosto che sulla visione, sul medium radio, piuttosto che sul cinema. Il film di McDonald non inoltre manca di gettare i semi per succosi spunti di riflessione: le tematiche cronemberghiane e Carpenteriane rielaborate con le teorie semiotiche sul codice linguistico, il potere della parola, l’idea del linguaggio come virus
contagioso.

Nonostante un finale non all’altezza delle premesse, un film con poche buone idee ben piazzate.

mercoledì 26 ottobre 2011

I WANT TO BE A SOLDIER, di Christian Molina, 2011

Alex ha otto anni e sogna la carriera da astronauta. Ma quando sua madre rimane incinta di due gemelline i suoi cominciano a trascurarlo per riversare tutta la loro attenzione sulle nuove arrivate. Il ragazzino, lasciato solo davanti alla tv in preda ad immagini violente, sviluppa un’ossessione per la guerra e per la violenza, diventando un bullo violento e sociopatico.


Premiato al festival di Roma dello scorso anno dal “Premio Marc'Aurelio Alice nella città sotto i 12 anni”, il film di Christian Molina, produzione spagnola ma con la partecipazione dell’ex soubrette Valeria Marini nei panni sia di produttrice che di attrice, ci ha messo un’anno ad uscire nelle sale. Lodevoli gli intenti: parlare di come i soggetti deputati all’educazione dei fanciulli, laddove deboli, siano rimpiazzati dai media, in primis quello televisivo, con effetti devastanti sulla salute mentale del bambino. Lo svolgimento purtroppo però non è all’altezza dell’idea, a causa di una sceneggiatura che, nonostante le quattro mani impegnate a scriverla, mette troppa brace nel calderone e finisce per annegare lo spunto in un mare di luoghi comuni superficiali.

L’escalation violenta di un dolce ed educato ragazzino a bullo violento e reazionario è inoltre gestita male, con troppe ellissi e passaggi a vuoto. Tra televisione violenta, videogiochi splatter, genitori assenti e scuola inefficace stupisce che internet manca all’appello dei luoghi comuni sulla "diseducazione" infantile. Cadendo nel predichino sterile del film a tesi, I want to be a soldier banalizza un tema – quello della violenza veicolata dai media – che non ammette leggerezze. Eppure almeno un paio di sequenze realmente audaci e disturbanti lasciano immaginare che con un po’ più di coraggio e voglia di rischiare a quest’ora staremmo parlando di un altro film. Non bastano purtroppo la bella prova del piccolo Fergus Riodan e la grottesca comparsata di Robert “Freddy Krueger” Englund nei panni di un bizzarro preside-psicoanalista – da vedere la sua “terapia d’urto”, indubbiamente la cosa migliore del film – per risollevare il film dal dimenticatoio a cui è ineluttabilmente destinato.

4/10


recensione pubblicata su www.filmedvd.it